giovedì 31 ottobre 2013

Come alle origini...





Ci siamo ritrovati in mezzo al deserto. Abakar e io, due comboniani alla frontiera est del Ciad. Accompagnati da Christian della comunità di Biltine, siamo arrivati la mattina presto ad Arada, il arabo la terra. Il primo ad accoglierci con un bel the sotto l’hangar (il riparo dal sole fatto di piccoli legnetti) è il pastore protestante Etienne che vive all’entrata del villaggio in una piccola casetta di cemento con la moglie e i tre figli. Sembra di essere alla frontiera del mondo. Intorno a noi pochissimi alberi, alcune montagne che ci circondano e tantissimi pascoli di buoi, pecore, cammelli che si spostano verso sud. La stagione delle piogge è finita e per cercare l’acqua bisogna spostarsi seguendo i pascoli.

Ad Arada i cristiani cattolici sono talmente pochi e disorganizzati che si ritrovano con i protestanti. Così il pastore Etienne è la guida per tutti. Un uomo serio, coraggioso al punto da rischiare sulla sua pelle la sua permanenza in un luogo ostile dove i musulmani all’inizio lo hanno minacciato perché se ne andasse. Ma ora le relazioni sembrano migliorate e i cristiani si fanno rispettare. Sembra di tornare alle origini, pochi anni dopo la resurrezione del Galileo, quando la domenica mattina presto ci ritroviamo sotto l’hangar del pastore per pregare assieme. In 28, con donne e bambini, assiepati in uno spazio ristrettissimo ascoltiamo la Parola e affidiamo al Padre-Madre di tutti coloro che fanno fatica. Proviamo a incoraggiare tutti ad andare avanti. Il fatto di essere assieme è già un segno del Regno molto bello. Cantiamo e preghiamo. Chiudo gli occhi e mi sembra di fare un volo nella storia del cristianesimo. Raccogliamo le offerte che aiuteranno la piccola comunità a costruirsi un hangar migliore. Qui una cappella in cemento è ancora troppo un lusso. Siamo alle origini. I cristiani hanno bisogno di trovarsi assieme e di farsi forza.

Concludiamo la preghiera con la polenta e il pollo mangiati come a sud con le mani. Ringraziamo il pastore e la sua famiglia e promettiamo di rivederci presto. Nonostante la lontananza e l’isolamento la piccola comunità resiste. Perché Dio non abbandona.

domenica 20 ottobre 2013

La scoperta della propria piccolezza: il cuore della missione!



Commento libero al Vangelo di domenica 27 Ottobre 2013

Lc 18,9-14


In cammino verso Gerusalemme, il centro del potere politico e religioso che affama la gente di Galilea, Gesù racconta a chi si sente a posto e arrivato una storia presa dalla vita, che può fare breccia nei cuori dei farisei perché li provoca nel vivo! Il loro nome vuol direi “separati” dalla gente, perché il senso di superiorità e rispetto minuzioso delle regole, li fa sentire migliori degli altri. Un rischio molto forte per noi missionari-farisei! Nei giudizi sulla nostra gente non risparmiamo critiche feroci che nascondono un considerarci su un piano rialzato. E invece quanto cammino dobbiamo fare proprio noi che siamo così spesso “separati” dalle gioie e speranze, tristezze e angosce della gente! Nella preghiera al tempio il fariseo sta in piedi per farsi vedere e ringrazia Dio per essere diverso dagli altri. Si mette in confronto, è concentrato su di sé, si auto elogia per i suoi meriti, pensando così di comprare la benevolenza di Dio per lui. Ma in fondo il suo dio è sé stesso, così al di sopra degli altri.

Ai nostri cristiani di Abéché, la “città faro dell’Islam” in Ciad, non passa proprio nel cuore e nella testa di fare confronti. Né con i musulmani né con altri. Guardano a sé, come il pubblicano che resta a distanza perché si sente indegno. Non osano fare elogi di sé, semmai il contrario. Riconoscendo la loro piccolezza chiedono nella semplicità acqua, pane, salute e lavoro. L’essenziale, senza tanti fronzoli. E il perdono soprattutto! Delle molte cadute nel cammino e dell’adagiarsi naturale sulle logiche e mentalità della società che mira ai soldi, prestigio, potere e successo. Come riconoscono i fratelli e sorelle musulmani che in questi giorni hanno festeggiato il “Tabaski”, la festa del sacrificio di Abramo. I pochi ciadiani che hanno potuto sono partiti al grande pellegrinaggio alla Mecca, per riconciliarsi con Allah e ritornare all’alleanza originaria, rappresentata dalla pietra nera della Mecca. 

I nostri cristiani non sono così zelanti nel pagare la decima che potrebbe far funzionare bene tutta la comunità. Anzi è un tasto dolente la coscienza profonda di far parte di una comunità che deve prendersi in mano anche a livello materiale e provare la dignità di vivere la propria fiducia in Dio. Il dare con generosità e il mettere in comune stentano ancora. Ogni gruppo tende a concentrarsi su di sé, perdendo di vista l’orizzonte dell’oltre, della comunità e più in là ancora. Lo slancio missionario e il guardare fuori di sé, verso il mondo musulmano che ci circonda non è evidente. Le ferite di una guerra per il potere lunga trent’anni, che hanno provato a dipingere di religiosa, bruciano ancora sulla pelle viva del popolo ciadiano. 

E il digiuno? Ma quale digiuno per gente che digiuna forzatamente da una vita! In pieno Sahel il cibo non è mai scontato. Come l’acqua, che i bambini vanno a prendere scavando nella sabbia degli wadi, i ruscelli, ormai secchi e che caricano sugli asini per portare in città e guadagnare qualcosa. Ma i prezzi al mercato sono alle stelle. “Prima non era così” mi racconta Joachin, leader della comunità cristiana, da ventiquattro anni ad Abéché. “ Il cibo era accessibile. Ma quando sono arrivati gli organismi internazionali, le ong e la Minurcat, la forza multinazionale di pace, per la sicurezza della regione e l’accoglienza dei profughi dal Darfur, i prezzi sono volati. E’ dura vivere ogni giorno così”.

Non sono un modello i nostri cristiani “nomadi” di Abéché. Vengono dal sud per lavoro e non sono originari di qui. Ma resistono assieme, lontani dalla propria terra e spesso dalle famiglie, in condizioni dure di vita e di contesto non certo semplice. Ma sono consapevoli della propria piccolezza e dei propri limiti e questa è la vera preghiera! Quella che fa verità con sé stessi e con gli altri. Quella che non ha pretese, che non si sente dalla parte giusta, che non fa confronti e non può permettersi di disprezzare gli altri. Il vero dialogo con Dio che innalza i piccoli e abbassa i grandi. Il Dio che ribalta le logiche umane e il corso della storia, nonostante tutto.

Credo nella potenza vera della preghiera” diceva Daniele Comboni ai suoi missionari. Quella bomba atomica di una relazione profonda con Gesù di Nazaret, che fa ti sentire talmente amato al punto che nulla può fermarti. Neanche la morte. “ Io muoio ma la mia opera non morirà” dirà ai suoi missionari sul letto di morte. Carica e passione missionaria alimentano ancora il cuore di tanti che nel mondo provano il sogno di Dio, cercando di fare verità, mettendo da parte, con grande fatica, la presunzione di essere a posto e la tentazione di disprezzare gli altri. Per dire con il pubblicano: “ Dio, abbi misericordia di me peccatore!

martedì 15 ottobre 2013

Daaba





Il suo volto giovane e limpido facilmente trae in inganno. Sembra un ragazzino ma è prete da 6 anni. Originario di Bitkine all’estremo est del Ciad, nella regione desertica del Guera, Daaba è il solo prete diocesano ciadiano originario di questa zone, dove piccole comunità cristiane vivono dentro la stragrande maggioranza di musulmani. Piccole isole dentro un mondo con cui mettersi in dialogo, aperti all’incontro.

Ci accoglie con grande gioia nella sua parrocchia e ci tiene a farci mangiare il Kissar, un pane sottile specialità del mondo arabo, con la salsa di pollo accuratamente preparata dalla sua famiglia. La mamma è ritornata al Padre qualche anno fa e suo babbo, ormai anziano, è accudito dalle 7 sorelle e dai 5 fratelli di Daaba. Vivono in un piccolo villaggio a 5 Km da Bitkine, e spesso si vedono. Daaba in moto passa a trovarli oppure loro scendono in città per vederlo.

Corre a destra e sinistra e si preoccupa di ogni persona e situazione. Anche con la malaria non si risparmia per il lavoro e ci mostra le scuole di Bitkine e i due Foyers, per ragazzi e ragazze. Luoghi dove i giovani, lontani dalle distrazioni e lavori incombenti di casa, possono studiare e crescere assieme. Dalle nostre parti sono piccoli miracoli. E’ lui che sta finendo di costruire la residenza dei ragazzi che hanno cominciato quest’anno a vivere assieme. Li segue e si informa sul cammino di ognuno.

Durante la messa della domenica nella sua comunità di Bitkine ci presenta alla gente e ci chiede di presiedere l’Eucarestia. Parla il kenga, la sua madre lingua, una delle più di 200 che abbiamo in Ciad, e se la cava benissimo con francese e arabo. Non ha problemi di comunicazione e di relazione. Quando parla pesa le parole una ad una, per dare ad ognuna l’importanza che merita. Sembra di ascoltare la voce di un saggio che ha pensato molto prima di aprire la bocca.

Per lui certo non è facile essere l’unico prete ciadiano originario del Vicariato Apostolico di Mongo ad est del Ciad. Vive con Denis prete del Burkina Faso che dà una mano da ormai due anni e la loro relazione sembra molto buona. Il cristianesimo da queste nostre parti è una piccola minoranza e l’ambiente circostante è una forte sfida alla fiducia in Dio. Ma anche un’opportunità unica di incontro, di scambio, di conoscenza per dare solidità e forza alle convinzioni profonde che fanno andare avanti ogni giorno nel cammino.

Il suo nome in arabo vuol dire “Adesso!”. Ed è tutto un programma…è quell’adesso del Regno di Dio che fiorisce laddove la fraternità, la giustizia, l’incontro e la solidarietà sorpassano etichette, ruoli e religioni. Per provare a rendere il mondo un po’ più umano...

lunedì 7 ottobre 2013

Amare senza frontiere





Il sogno di Comboni mette piede ad Abéché

(traduzione dal francese di un articolo scritto  per Combolaa, il bollettino dei Comboniani in Ciad)



 

La domenica 29 settembre 2013 è una data che segna in modo indelebile la storia della missione in Ciad. I Gesuiti, che hanno fondato la comunità cristiana di Abéché nel 1953, passano il testimone ai Missionari Comboniani dopo 60 anni di servizio al Vangelo.

Guidati dal Padre Provinciale, Pietro Ciuciulla ed il suo Consiglio, i padri Fidele Katsan, Michael Mumba et Paolino Tipo Deng, l’equipe comboniana composta dai padri Oswald Baptiste Abakar e Filippo Ivardi Ganapini arriva ad Abéché il 26 settembre dopo una notte trascorsa a Mongo, la capitale del Vicariato Apostolico. Sul posto il Vescovo gesuita Henry Coudray, che aspettava da quattordici anni i Comboniani nel suo Vicariato, accoglie molto fraternamente i nuovi missionari e li accompagna come un vero pastore all’incontro della “città faro dell’Islam” o la “porta dell’Oriente” come amano chiamarla gli Ouaddaiens, gli abitanti della regione d’Abéché.

Mentre il Consiglio Provinciale dei Comboniani si svolgeva, i giorni primi della celebrazione ufficiale del passaggio di consegne, il Vescovo ha introdotto la nuova equipe alla comunità cristiana. Li ha presentati alle CEBs, le comunità cristiane ecclesiali di base, ai laici responsabili, alle Suore dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria e ai diversi Movimenti della comunità cristiana di Santa Teresa del Bambino Gesù dii Abéché. Comunità notevole anche se piccola in rapporto alla popolazione totale della città, in stragrande maggioranza musulmana.

Ma la Parrocchia è enorme se si considerano anche le 32 comunità della diaspora, da accompagnare e servire, là dove dei gruppi più o meno numerosi di cristiani si riuniscono per la preghiera e per vivere insieme la Parola di Dio. Laddove si trovano anche migliaia di rifugiati e sfollati alla frontiera con il Sudan, fratelli e sorelle tra i più poveri e abbandonati, senza casa né terra. Coloro per i quali Daniele Comboni invita i suoi missionari a dare la vita.

Voi siete venuti qui per amare senza frontiere” ha detto il Vescovo ai comboniani che cominciano la nuova missine durante la Messa d’introduzione. Facendo riferimento al Vangelo del giorno (Lc 16,19-31) dell’uomo ricco e del povero Lazzaro, il Vescovo Coudray ha detto che noi tutti siamo dei poveri ma, al contrario dell’uomo ricco che non vede il miserabile sulla soglia della sua casa, il vero e solo ricco, il Signore, vede le nostre difficoltà e ascolta il grido del suo popolo. Per questo invia i suoi missionari alle frontiere della missione, nella terra chef u un tempo il Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale, affidato a Daniele Comboni. Una missione consacrata al dialogo e all’incontro con l’Islam perché “Dio è vicino al suo popolo” continua il Vescovo “come dice il Corano che Allah è più vicino a noi della vena giugulare”.

« Siamo venuti qui anche se le nostr forze non sono molte. Ma si dà perché si ama e non perché si ha” ha rincarato la dosep padre Pietro durante il su discorso alla fine della messa, quando si è svolto il simbolo del passaggio. Il padre gesuita Fidele Dollo, parroco uscente di Abéché, ha rimesso il registro dei battesimi nella mani della nuova equipe comboniana. A quel momento le danze e i canti incontenibili hanno ravvivato l’Assemblea e hanno manifestato la gioia di una comunità che ha davvero ben organizzato e preparato nei dettagli la festa. 

L’Africa e i poveri si sono impossessati del mio cuore che batte solamente per loro” diceva Daniele Comboni ai suoi missionari. Che questo stesso spirito possa accompagnare la nuova missione comboniana nella terra di Abéché, per camminare al seguito di Gesù di Nazaret, con la gente, verso il Regno di giustizia e pace.



sabato 5 ottobre 2013

Accompagnare la speranza





Dentro il campo dei rifugiati di Kounoungou ad est del Ciad

di Filippo Ivardi Ganapini da Guereda

Alle cinque del mattino, mentre il sole già si alza al ritmo del canto del muezzin che invita alla preghiera, un asino con due bisacce piene d’acqua sulla schiena entra nel centro di JRS (il servizio dei Gesuiti con i rifugiati) che ospita la nostra missione itinerante e la piccola e attivissima comunità cristiana. Da queste parti, nella regione del Ouaddai, ad est del Ciad vicino alla frontiera con il Sudan, l’acqua è poca e costa. Si scava nei solchi degli wadi, i piccoli ruscelli che in stagione delle piogge danno respiro alla natura, per trovare vita in pieno Sahel. 

Guereda è un piccolo villaggio a 1000 metri di altezza nella regione di Dar Tama, la terra dei tama, un popolo di allevatori e commercianti quasi interamente musulmano. Gli abitanti sono nomadi ormai sedentarizzati che provano a coltivare il miglio su una terra ostile, arida e poverissima di acqua. Alcuni vanno e vengono dal vicinissimo Sudan a causa del commercio per poi rifugiarsi nelle piccole case costruite in mattoni di terra cotta al sole. Che brucia e certo non manca da queste parti, anche se la notte la fresca brezza dell’Harmattan, che proviene dal deserto, rinfranca gli animi.

Nel 2004, in seguito alla guerra scoppiata un anno prima nel vicino Darfur tra i ribelli della regione e il potere centrale, una folla incredibile di gente ha chiesto qui rifugio dopo aver perso tutto: case bruciate, bestiame rubato, terre invase, pozzi avvelenati, donne violentate e tanti morti da parte delle milizie Janjawid, i “diavoli a cavallo” al soldo del governo di Khartoum. Considerati ribelli al regime e in combutta con il Sud gli abitanti del Darfur sono sempre stati scomodi per il presidente sudanese Al Bashir che non vuole perdere l’oro e il petrolio scoperti nella regione e il prestigio del pieno controllo sul territorio. Scoppiato il conflitto, la comunità internazionale è intervenuta tempestivamente, allestendo diversi campi di accoglienza dei profughi, perché allora i riflettori dell’attenzione mondiale hanno dato grande rilievo a questo angolo di mondo. Oggi tutto questo è svanito e la “guerra a bassa soglia” sembra interessare pochi addetti ai lavori. 

Attorno a Guereda,  la risposta all’emergenza del 2004 non si è fatta attendere e due immensi campi, entrambi di circa 20.000 persone sono diventati casa per vari gruppi etnici tra cui i Fur, i Tama, gli Zaghawa ei Massalit a Kounoungou, e la stragrande maggioranza di Zagawa, il gruppo del presidente ciadiano Idriss Deby, a Mileh. Problemi di convivenza pacifica tra etnie diverse ha causato la divisione dei gruppi nei campi. Lingue, tradizioni e usanze così diverse nonché antiche rivalità interetniche e tensioni  a causa di furti di bestiame non facilitano certo la prossimità e la solidarietà nella sofferenza. Soprattutto quando un gruppo prevale troppo sugli altri a livello numerico.

A Kounoungou camminiamo, con gli amici e il personale di JRS, tra le case che la gente si è costruita man mano che dall’emergenza si è passati ad una situazione di maggiore stabilità. Senza possibilità di ritorno definitivo. Anzi dall’inizio dell’anno sono arrivati in Ciad, soprattutto nella zona di Tissi, al confine con Sudan e Centrafrica più di 30.000 persone costrette a scappare da conflitti intercomunitari per il controllo di territori ricchi di minerali. 

Le case nel campo rispecchiano la vita nel vicino Sudan. Sembra che ormai la gente si sia installata e che provi a ricostruirsi una vita, per quanto possibile normale, lontano dalla martoriata terra di origine. Si tratta di recinzioni in terra cotta al sole e casette piccole rotonde con tetti ricavati dalla plastica dei teloni che l’UNHCR (L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) ha donato al loro arrivo. Il primo riparo continua ancora a fare la sua parte e a dettare l’importanza della memoria. Come i viveri, immagazzinati e controllati giorno e notte sotto enormi tendoni, che vengono distribuiti una volta al mese da Secadev, ong che si occupa di sicurezza alimentare, acqua e sviluppo. Anche se poi è facile trovare i sacchi di sorgo proveniente dagli Stati Uniti sui mercati locali. La gente, abituata al proprio cibo, preferisce vendere e ricomprarsi dove possibile i propri prodotti. Comunque la distribuzione del cibo resta la tappa annunciata e che nessuno osa perdersi. Anche coloro che ritornano qualche tempo in Darfur per commercio e visita a quello che rimane delle famiglie e delle case si presentano puntuali all’appuntamento. Per poi ripartire. In effetti in giro per il campo durante il giorno non incontriamo tanta gente: soltanto i primi studenti che hanno ripreso le lezioni nelle scuole gestite da JRS, bambini che giocano e si avvicinano curiosi dicendo “ca va?”, insegnanti e sorveglianti, alcune donne che preparano i mattoni per le costruzioni e altre che tornano dai campi sul dorso degli asini carichi dei prodotti della terra. Piccoli negozietti e un ristorante con specialità sudanesi accolgono chi si ristora nel cammino. Gli asili non hanno ancora riaperto le porte del nuovo anno scolastico e la bellissima sala di incontro per i giovani è vuota. I programmi di formazione e animazione lasciano piuttosto a desiderare e sembrano non attirare più di tanto. Molti, durante il giorno, sono nei campi attorno perché il raccolto del miglio si avvicina e gli altri sono in viaggio. Chi per il commercio, chi per visite, chi per salute o lavoro, molti si assentano: i rifugiati non perdono certo il loro carattere endemico di semi nomadi. 

Cibo gratis, scuole anche o quasi, medicinali e aiuti di ogni tipo dalle varie ong internazionali e locali non li aiutano certo a prendere in mano il loro destino dopo quasi 10 anni dall’esodo forzato. Le mani si piegano instancabili e volentieri alla filosofia del chiedere sempre e comunque aiuto. Ma come potrà andare avanti tale situazione? Fino a quando l’aiuto e l’assistenza dall’esterno? Che tipo di incidenza effettiva hanno sulla popolazione e sulla convivenza gli interventi e i progetti faraonici degli umanitari? Servono solo progetti, soldi e reports o anche una presenza amica, vicina, che sa ascoltare e condividere senza troppe pretese? Emergenza sempre oppure sviluppo? E la condivisione del tempo assieme seduti a parlare sotto l’albero di idee, di culture e abitudini diverse, servono a niente? 

La vera sfida è il futuro del campo. L’UNHCR sta lavorando per passare il testimone alle ong locali e alla gestione auto partecipativa dei diversi gruppi etnici. Ma si tratta di un lungo e rischioso processo perché grossi interessi economici e di predominio sociale si scontrano. Assistiti per così lungo tempo sapranno gruppi etnici così diversi coabitare insieme e organizzare con la nuova filosofia del tirarsi su le maniche una possibilità di intesa e collaborazione sociale? Quale strada intraprendere per chi ha perduto le proprie radici e si trova a reinventare un’esistenza imprevista in terra straniera? La nostra presenza missionaria può accompagnare e in che modo questo cammino di uscita dalla dipendenza e di immersione nella fatica della dignità?

I problemi, le sfide e le domande sono sul tavolo delle discussioni, dei budgets e delle verifiche dei partner in questione. Ma anche e sempre nei cuori dei sudanesi che chiedono spazio per vivere su quello scacchiere mondiale in cui sono ormai passati di moda.