mercoledì 24 ottobre 2012

Impronte missionarie






(Accolgo e pubblico con gioia una lettera di un grande amico)

di P. Andrea Facchetti – missionario saveriano in Mozambico
sedaqa@gmail.com

Carissimi e carissime,
è poco più di un mese che i piedi sono arrivati in questo angolo di Africa: Mozambico, città di Dondo e dintorni, poco sopra il 20° parallelo dell'emisfero australe, a poche decine di chilometri dalla costa dell'oceano Indiano. I passi camminati in questo tempo breve sono tanti e belli. La sera guardo i piedi impolverati, felici di avere camminato. Le strade qui sono di terra sabbiosa color giallo paglia: le impronte rimangano a lungo. Mi giro indietro, ringrazio Chi è cammino, Chi chi mi fa camminare e Chi mi prende per mano. Provo a sostare su alcune impronte e le condivido con voi.

Impronta prima: la comunità e la sera successiva.

Ottima l'accoglienza in comunità, coadiuvata anche dal parmigiano e dai salami scampati ai famigerati controlli dell'aeroporto di Maputo. Siamo quattro, due italiani e due messicani: p. Fabio, p. Polo, p. Enrique ed io. Come Missionari Saveriani siamo presenti anche in altre tre comunità a nord ovest, verso l'interno, verso il fiume Zambesi, a distanza di circa 400 km da Dondo. In tutto siamo dieci. Siamo pochi e siamo qui da quattordici anni, vale a dire pochi: sono i primi passi, i sentieri non sono autostrade prefabbricate, ma si fanno assieme camminando con la gente. La sera successiva, un venerdì, abbiamo fatto Eucaristia, celebrando la messa in parrocchia. Eucaristia potente di vita, canto e gioia nella quale piedi, testa e cuore si mettono al posto delle mani per suonare il tamburo. Prima della conclusione sono stato presentato alla comunità: con quel poco di portoghese che ricordavo mi è venuto da dire che il giorno prima erano arrivati in Mozambico i piedi, mentre dopo quella messa era arrivato anche il cuore. Sì è così. Perché i piedi arrivano rapidi con l'aereo, mentre cuore e testa non rispettano le leggi di tempo e spazio e a volte vanno più veloci, mentre altre volte vanno un poco dopo.

Impronta seconda: mattina e pomeriggio.
                                                                               
Alla mattina generalmente studio portoghese, che ho ripreso dopo avere messo nel cassetto per qualche anno. Dovrei averne per pochi mesi. Entro i primi dell'anno prossimo, terminato il portoghese, dovrei cominciare il cisena, la lingua autoctona di origine bantu parlata nella regione. Per ora parlo cisungo: sono nsungo (bianco) e parlo cisungo (cosa di bianco). Ci vuole tempo per parlare cisena (cosa di sena) e, soprattutto, per diventare sena. Se non nella pelle, fare del mio meglio per essere sena nella testa e nel cuore. Sono i primi passi in una cultura altra che mi accoglie e cerco di farli in punta di piedi. Poi terminato lo studio delle due lingue e fatti i primi passi nella cultura, dovrei andare in una comunità dell'interno. Al pomeriggio, ho cominciato a girare i quartieri di Dondo con la Pastoral da Caridade. La Pastoral da Caridade sono nonne, tanto miti quanto combattive, che conoscono i malati, i poveri, gli anziani: scambiano due chiacchiere, pregano e cantano con loro, lavavano loro i piatti, vanno al pozzo a prendere l'acqua, danno un aiuto in termini di cibo e indumenti se necessario. Insomma, ottime maestre di vita e di Evangelo vissuto. Un osservatorio evangelico (e sociologico) per mettere radici poco alla volta in questo popolo e in questa terra. Alcune nonne parlano solo cisena. Difficile capirsi? Ma la prassi della ferialità è di aiuto ad andare in fondo fino a quel substrato di umanità che precede le peculiarità delle culture.

Impronta terza: il distretto e la parrocchia di Dondo.

Dondo è città capoluogo dell'omonimo distretto. I confini della parrocchia coincidono con quelli del distretto. La parrocchia è quindi costituita dalle 12 comunità della città (circa 75.000 persone) più altre 12 comunità fuori città, la più distante a poco più di tre ore di macchina (chiaramente su strada non asfaltata). Ogni comunità è ben organizzata e si gestisce in maniera pressoché autonoma: non essendoci il prete, sono i laici, donne e uomini, che preparano i momenti di preghiera, le celebrazioni domenicali, le catechesi. In alcune comunità fuori città noi passiamo due volte all'anno, prima e dopo la stagione delle piogge. In città riusciamo ad essere più presenti. Le abitazioni della città sono per metà palhota, vale a dire capanne con tetto di capim (arbusti e frasche) e per metà sono abitazioni di mattoni col tetto rigorosamente in eternit. Anche la nostra casa è tra queste. L'unica casa a due piani e col tetto in tegole è quella del governatore. L'eternit, bandito in gran parte dei paesi del nord del mondo, qui è ovunque. Proprio a duecento metri da casa nostra, c'è la Lusalite, grande fabbrica costruita dai portoghesi in epoca coloniale, che fino ad un anno fa produceva eternit. Ora, ufficialmente produce "fibrocemento", un surrogato dell'eternit che non dovrebbe contenere amianto. Insomma, qui a due passi dalla Lusalite, tutto è di eternit: tetti, cisterne d'acqua, pareti interne e porte delle case. Addirittura alcuni dei pochi cartelli stradali sono di eternit.

Impronta quarta: Nhamizingherwa e pensieri vari.

Nhamizingherwa, villaggio di capanne sparse, è una delle 12 comunità fuori dalla città. E' la più lontana, a tre ore e mezzo di jeep su sentieri di terra sabbiosa in mezzo al silenzio e al sole infuocato della savana. Durante la stagione delle piogge rimane isolata, circondata dall'acqua. Noi vi andiamo due o tre volte all'anno. Si parte la mattina presto del sabato, si dorme in tenda o in palhota e si torna la sera della domenica. Qualche settimana fa siamo stati a Nhamizingherwa con Enrique e due catechisti che parlano bene il sena. E' una delle comunità più recenti: la gente sta imparando a fare il segno della croce. Mi sono messo anche io assieme ai bambini: Na zima ya Baba, na ya Muana, na Dzimu Wacucena... La sera attorno al fuoco, il cielo di una notte africana con stelle ancora senza nome sopra la testa, la preghiera che si fa danza ritmata dal tamburo. E poi la mattina l'Eucaristia sotto il grande albero. Affiora quel senso di Dio che è antropologicamente inscritto nel cuore dell'uomo, prima ancora di sentire il nome dell'Uomo di Nazaret,.  Quella mattina mi sono alzato alle cinque per vedere il sole sorgere: palla di fuoco rossa che si alza lentamente tra l'umidità spessa della notte, le sagome poderose degli alberi e la sinfonia mistica degli uccelli. Dicevo grazie al Dio della vita, poi la testa diventava un vortice di pensieri e mi chiedevo che ne sarà quando anche lì arriverà una strada, il telefono, la coca cola, la tv...

Impronta quinta: 4 ottobre, Dia da Paz.

Il 4 ottobre in Mozambico è il Dia da Paz, vale a dire il giorno della pace. Il 4 ottobre del 1992 furono infatti firmati a Roma gli accordi di pace, dopo una guerra civile (esistono guerre civili?) fratricida che in 16 anni aveva ucciso più di un milione di persone. Un milione di persone ammazzate in un paese che allora contava circa quindici milioni di abitanti: fate i vostri conti. Quest'anno è anche un po' speciale, dato che ricorrono i venti anni. Ovunque, dalle città ai piccoli villaggi, ci sono state iniziative per non dimenticare la storia e per dare radici alla memoria. Anche Dondo ha avuto la sua parte con danze, tamburi, comizi, deposizione dei fiori al monumento. La gente ha voglia di pace e il fare festa assieme è un volto di questa sete di pace. Non può non essere così. Anche perché i 16 anni di guerra civile sono stati preceduti da 11 anni di guerra di liberazione dal Portogallo, cominciata nel settembre del 1964 e terminata con l'indipendenza, proclamata il 25 giugno del 1975, giorno in cui nacque la Repubblica Popolare del Mozambico. Un paese in guerra dal 1964 al 1992 non può che volere la pace. Come molte altre guerre combattute in Africa, anche quella in Mozambico ha avuto le sue responsabilità anche al di fuori del paese. Due i fronti della guerra fratricida. Da una parte il Frelimo, che univa diversi movimenti popolari protagonisti della lotta di liberazione e che, raggiunta l'indipendenza del paese, optava per il socialismo. Dall'altra la Renamo, sorta qualche anno dopo l'indipendenza, che aveva l'appoggio di Sudafrica e Rhodesia, paesi nei quali vigeva il regime razzista dell'apartheid, e degli Stati uniti che così facendo intendevano contrastare l'appoggio sovietico al Frelimo. La storia si ripete: ancora oggi l'Africa è campo di battaglia di guerre decise altrove. Perciò è obbligo non dimenticare e fare memoria.

Alcune impronte non sono la strada, ma almeno segnano la direzione. Vediamo se riesco a rimanere fedele all'impegno di condividerne ogni tanto qualcuna.
Un caro saluto e um forte abraço!
Buona strada!
Andrea

martedì 23 ottobre 2012

Nuova evangelizzazione?







Tornare in Italia è sentire a pelle tanta gente delusa, senza speranza e fiducia nel presente e nel futuro. Una rabbia crescente (e giusta!) verso i politici e un indifferenza galoppante verso la Chiesa, travolta dagli scandali e da un esodo silenzioso. Qualcuno però, controcorrente, sente ancora il fascino di Gesù di Nazaret e del Vangelo. E tiene alto il sogno e la speranza. Pochi ma buoni e resistenti. Che lottano per un mondo più umano e giusto, da ribaltare.


                I vescovi del mondo, impegnati a Roma nel Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione, si stanno interrogando sul da farsi. Cosa non va nell’annuncio del Vangelo? Perché non è più buona notizia per gli uomini e donne di oggi? Perché tutta sta crisi? Quali mosse, quali passi nuovi, strategie, metodologie cambiare? Si sente l’eco di un apertura (finalmente!!) per divorziati e risposati…ma altre porte e tante attendono di essere aperte. Per mostrare finalmente quel vero volto del Dio amore fino alla follia, che il Concilio Vaticano II aveva cercato di evidenziare. Tutti lo citano. Ma poi nella prassi continuiamo a tradirlo. E tradire il volto umano di quel Dio amore, Gesù di Nazaret. Venuto per servire e non per essere servito (Mc 10,45). Possiamo allora inventare tutte le tecniche che vogliamo: tecnologie digitali per la comunicazione, nuove prassi pastorali e balle varie. Ma se non mostreremo il vero volto di Dio con gesti che hanno sapore di pane spezzato e parole autentiche fino a spendere davvero la vita, non servirà a nulla! “Il lieto annuncio – scrive il missionario comboniano e confratello Giulio Albanese nel suo libro “Missione XL” – è un mondo capovolto, quello di un Dio radicalmente diverso da come i rabbini l’avevano presentato”. Dio lava i piedi ai suoi amici, si lascia contagiare dal lebbroso, denuncia il sistema del tempo fondato su ingiustizia e oppressione degli impoveriti di quel tempo. E di oggi! Paga il prezzo della sua libertà. E lo sconta con la morte più indegna e vergognosa per i sovversivi del sistema costituito. La croce.


                Dio non sa far altro che amare. Così va presentato e comunicato. Solo così. Per questo servono missionari con adrenalina nel sangue (per dirla alla Giulio Albanese) che l’hanno incontrato e toccato con mano. E che portano dentro una passione che ribolle e che non puoi fermare. Perché come lo Spirito, soffia dove non sai. Gente disposta a pagare con la pelle il sogno che insegue. Come Lele Ramin e i tanti martiri e testimoni del Vangelo. Diceva Lele: “Ho la passione di chi segue un sogno. La parola ha un tale accoramento che se la raccolgo nel mio animo sento che c’è una liberazione che mi sanguina dentro. La mia esperienza di camminare su strade che non hanno un arrivo, su strade che non hanno un cielo, dove sento soltanto la piccola gioia cavata fuori con una fatica tremenda. Non mi vergogno di assumere questa fratellanza. Uomini buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono fratelli”.


                Presentare e vivere il Dio dell’amore è assumere e fare proprio il grembiule del servizio. Tonino Bello sognava la “Chiesa del grembiule”, spogliata di tutti i paramenti per rivestirsi soltanto del segno indelebile dell’autenticità cristiana: il servizio con gli ultimi. Lì dobbiamo tornare con lo slancio delle origini. Delle prime comunità cristiane vivaci e resistenti nel cuore dell’impero. Perseguitate perché scomode. Una Chiesa che va a braccetto con il potere costituito e che non è più perseguitata è ancora credibile? E’ ancora la Chiesa di Gesù di Nazaret? Diceva Carlo Maria Martini prima di morire: “ La nostra Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America…le nostre chiese sono grandi, le nostre case religiose vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi”.


                Venite però in fondo al Ciad a vedere l’entusiasmo e la semplicità delle nostre comunità cristiane! Con i nostri limiti e contraddizioni. Ma venite a toccare con mano Dio e il Vangelo. E quella fame e sete di giustizia che ci scorre nelle vene. Quella denuncia irrinunciabile delle ingiustizie di un governo che intasca solo per sé le ricchezze del petrolio e che svende il paese alle multinazionali. Insieme a quel desiderio di andare in missione oltre frontiera, al nord, in ambito musulmano. Per creare amicizia, ponti e dialogo con i nostri fratelli e sorelle dell’Islam. Oggi più che mai profezia evangelica che cerca fratellanza universale.


                Solo con fatti concreti è nuova evangelizzazione. Non con idee e parole. Solo con il rischio di Gesù di Nazaret e del Vangelo è nuova evangelizzazione. Solo con il ritorno alla sorgente della Parola e dell’utopia evangelica è nuova evangelizzazione. Il resto non ci interessa.

giovedì 18 ottobre 2012

Felici i perseguitati a causa della giustizia


 


La storia di padre Michele, vescovo comboniano dei poveri

La settimana scorsa lo hanno buttato fuori. Il governo non ha mandato giù la sua continua e coraggiosa denuncia delle ingiustizie che affossano il paese. Il petrolio continua a scorrere abbondante e la gente sempre la stessa vita. Chi intasca sono i soliti noti che si armano fino ai denti. Lui non ci sta e grida senza paura. Una volta a pranzo si è scaldato sulla questione del petrolio e ha cominciato a battere i pugni sulla tavola. La fame e sete di giustizia gli scorrono nelle vene.

Hanno preso come pretesto una sua omelia di fine settembre. Dicono che ha invitato la gente a sollevarsi per la mancata redistribuzione delle ricchezze nazionali e dei proventi del petrolio. Si sono però tirati la zappa sul piede: si sono mobilitati per e con lui i cristiani, gli altri vescovi del Ciad, i comboniani, il Vaticano. E poi così facendo dimostrano nei fatti quello che già si conosce: non c’è libertà di pensiero e di parola in Ciad! Il settimanale N’Djamena Bi-Hebdo è fermo per 3 mesi per aver pubblicato una petizione dei sindacati che chiedevano al governo gli aumenti di salari dei lavoratori.

Si spera ora che padre Michele possa tornare al suo posto, tra la nostra gente. E niente, sono certo, può intimidirlo. Dopo 32 anni di Africa e 23 da vescovo non vedo cosa debba risparmiarsi. Neanche la pelle. Il Ciad e la nostra Chiesa hanno ancora bisogno di lui. Del suo coraggio, delle sue urla appassionate al fianco dei poveri, della sua vita e profezia. Simbolo di una Chiesa dalla parte degli ultimi che sa rischiare sulla pelle quel Vangelo che annuncia.

Non ci metteranno in silenzio. Quando le parole saranno vietate, non ci resterà che parlare con la vita. Spezzata con e per la nostra gente. Fino in fondo.